VOLEVO DIRE

Lo dico ora, in tempi non sospetti e con un po’ di amara ironia. C’è una demagogia di destra, ma c’è anche una demagogia di sinistra. E quest’ultima, rimanendo fatalmente invischiata nel gioco de “Io sono più di sinistra di te“, fa sì che da anni il centro-sinistra parta sfavorito o ottenga una sequela di vittorie di Pirro, magari anche in mezzo a infiniti dibattiti e battaglie ideologiche fatte di candidi propositi ma distanti anni luce dalla realtà e molto decontestualizzati rispetto alla realtà del paese. Tutto ciò chiaramente a scapito dei contenuti, questi sconosciuti. Tanto per fare degli esempi, la parità di salario fra uomini e donne (per me sacrosanta)? Si, forse, ne parliamo la prossima volta. Le lauree abilitanti? Chissà. Il contrasto ai monopoli e un potenziamento dell’antitrust? Boh, vediamo. Il divario digitale e gli investimenti sulla banda larga? Non ti preoccupare, ne parliamo la prossima volta. Una politica estera con un certo respiro? Prego? Un piano per l’occupazione giovanile, magari con degli sgravi fiscali? Ce l’hai una domanda di riserva. Il problema di un maggiore sostegno, pubblico o privato, alla ricerca e allo sviluppo? Ricordamelo, che poi ne parliamo. Con questa sequela di risposte stereotipate (quelle in corsivo) potremmo andare avanti all’infinito e su qualsiasi tema, perché su qualsiasi tematica ci sarebbe da fare luce sull’impalpabilità di una stagione politica che non ha neanche saputo darsi una chiara collocazione politica e ha sempre accettato malvolentieri il termine socialdemocratico.

In un paese anagraficamente (e non solo) vecchio come il nostro, se il centro-sinistra vuole veramente avere una speranza di vittoria deve capire che avrà bisogno anche del voto dei moderati. No, i moderati di centro-sinistra non sono una razza in via di estinzione, solo che gradiscono di più i contenuti, i fatti e le proposte concrete a qualche discorso trito e ritrito e anche un po’ mellifluo. Non è un caso che la maggioranza di coloro che hanno guidato esecutivi di centro-sinistra nella seconda Repubblica provenga dalle file moderate del centro-sinistra. Dovrebbe far riflettere tutti, anche quelli che non ci vogliono credere.

Insomma: a sinistra c’è ancora chi se ne infischia dei grandi problemi di compatibilità macro-economica (il debito e la sua sostenibilità, per esempio) e pensa che creare nuova ricchezza per poi redistribuirla —creare per poi redistribuire, tenendo presente che non si dovrebbero scindere, a sinistra, questi due processi— sia un optional.

Perché? Perché l’Italia, diciamocelo di nuovo francamente, è un paese in cui il centro-sinistra fa il doppio della fatica a costruirsi il consenso politico. Forse la ragione di questo è un certo atteggiamento tattico-politico di tipo autodenigratorio della sinistra stessa, o forse anche perché qui la sinistra, più che altrove, fatica ad ammodernare i programmi e far capire ai propri elettori che viviamo in una società e un mondo complessi e non ci sono soluzioni facili per problemi complicati.

Fatto sta che, se non si cambia veramente, se non si torna sulle proposte e sui fatti (per troppo tempo ci hanno detto che i fatti erano secondari e contavano di più le buone intenzioni ideologiche, salvo tutte le volte scontrarsi poi con la realtà), non si riacquista la fiducia di che dovrebbe darti fiducia.

#voleodire

Francesco

A spasso nella memoria (d’estate)

Le mie ferie, quest’anno, sono un po’ diverse dal solito. Le sto passando facendo ricerca fra i libri e gli archivi digitali e cartacei. È un’esperienza molto bella, illuminante, perchè si apre una porta sul passato. Esperienza consigliata. Scopri davvero che la memoria è una cosa preziosa.

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 È per questo che per un po’ non ho aggiornato il blog, ma presto ci saranno nuovi aggiornamenti.

Francesco

Fenomenologia del calcio inglese

Guida filosofico-spirituale al calcio d’oltremanica.

Qualcuno di voi, leggendo questo post, si domanderà come sia possibile spiegare un modo di concepire il calcio con la filosofia. Ma se è vero che dietro ogni azione umana, fin dal principio oppure no, c’è il pensiero, anche il modo di rincorrere un pallone può essere il risultato di un retroterra culturale.

Da sempre il calcio anglosassone ha avuto un modo tutto suo di manifestarsi, e non è un caso. A noi italiani, con il nostro calcio difensivista, fatto di tatticismi pedanti e cattedratici, lento e poco digeribile senza caffeina (tanta), il loro calcio è sempre parso prosaico, semplice, offensivista ma atleticamente intenso. La cultura britannica, dal canto suo, forgiata dall’empirismo, non ha mai amato i sistemi particolarmente complessi, astratti, pieni di regole e lontani dall’esperienza concreta. Questo sentimento si manifesta nel modo che hanno di vedere il diritto, lo stato, la cultura e logicamente anche lo sport. La loro concezione del football, perciò, ne è forse uno dei risultati più evidenti, soprattutto a livello di club. Il famoso stereotipo sul calcio britannico, quello del “palla lunga e pedalare”, come le leggende, ha forse un fondo di verità.

Quella mentalità calcistica offensiva è forse uno dei frutti più genuini del loro modo di concepire l’azione come elemento primario. Nelle partite di campionato qualche volta si ha proprio l’impressione che la partita e la tattica, anche se non completamente, si facciano da sé, che si adattino e siano estremamente dipendenti dal momento. Un calcio dispendioso, intenso, combattuto fino all’ultimo, figlio della convinzione tipicamente britannica per la quale, se si vuole veramente vincere una partita, sia sufficiente segnare un goal in più, indipendentemente da quanti goal si siano subiti.

Da noi, invece, quasi come in una falange oplitica o romana, il tutto parte dalla difesa, che fa da perno per tutto il resto (paragone forse esagerato, ma non ne ho trovato uno che renda di più onestamente).

Nel calcio d’oltremanica, oltre all’intensità (nel campionato inglese si corre mediamente di più che in altri) ci si affida di più alle palle alte, è più facile veder tirare da fuori area (da noi, spesso, gli allenatori si incazzano quando si tenta da fuori; ecco perché i goal dalla distanza più belli li ho visti nei campionati del Regno Unito), c’è maggiore potenza e, dulcis in fundo, non pare che gli spettatori se ne abbiano a male se non si abbonda di fantasia o creatività.

Non è solo una mentalità che mette al centro lo spettacolo, l’energia pura, ma è anche un modo di vedere il calcio decisamente non cinico o sornione, che rifugge le passività tattiche: per loro non dare tutto quel che si ha non è accettabile. Per noi italiani, invece, una partita di calcio può essere come una gara di scherma, dove ci si aspetta che l’avversario si sbilanci per assestare una stoccata vincente, lo si lascia stancare, lo si lascia credere di avere la gara in mano, magari immobilizzando il gioco e trasformando il tutto in un partita a scacchi. Da noi l’offensivismo viene sempre visto con diffidenza, da loro è l’essenza stessa del calcio.

Tuttavia, già a partire dalla fine degli anni ’80, con la volontà di imporsi più stabilmente a livello internazionale con i club, i britannici si sono rivolti spesso ad allenatori stranieri, che sicuramente hanno apportato un maggiore tatticismo al loro calcio. Questo contributo è servito loro per imporsi a livello continentale fra i club, anche se non sempre.

Noi italiani, dal canto nostro, spesso additiamo il loro calcio come il migliore d’Europa, come quello più allenante dal punto di vista tattico. Forse può essere vero, ma ne perde in spettacolarità e questo probabilmente lo rende televisivamente meno attraente all’estero. (Nel caso qualcuno se lo chiedesse, sono di parte e dico, da profano, che preferisco il calcio made in UK al nostro.)

Sono due modi molto differenti di vedere il calcio, frutto di due retroterra culturali completamente diversi. E se c’è una cosa che ho imparato è che i britannici hanno una concezione molto lineare ed edulcorata del calcio, per la quale i tecnicismi sono un orpello per lo spettacolo, ma il cuore (nella dimensione ludica) conta di più. È un calcio che, seppur orgogliosamente, si prende meno sul serio, che non ama gli arabeschi e apprezza la genuinità.

Per loro l’azione viene prima del pensiero, col provare; mentre per noi la tattica plasma la partita in anticipo, rendendola la gara dipendente dagli schemi già prima di iniziare. In definitiva, senza voler togliere niente a nessuno, nel calcio britannico c’è molto Locke, tanto Berkeley e un po’ di Hume. Nel nostro, invece, c’è tanto Cartesio.

Non me ne vogliano i filosofi per le semplificazioni del caso.

Ho provato a spiegarvelo. A voi l’ultima parola 🙂…

Langravio

ERA NATO DI SETTEMBRE

Era nato di settembre

Storia (incompleta) di Silvio Sardi

“Il ricordo è un modo di incontrarsi.”

(Khalil Gibran)

Era nato di settembre. Sono state le parole di mia madre quando le ho mostrato il fascicolo. Con queste parole lo ha riconosciuto. Tutto le pareva più chiaro. Il passato cominciava lentamente a riaffiorare: la sua non era più una storia ingiustamente semi-dimenticata, gelosamente custodita ma dai contorni sbiaditi. Il percorso umano di Silvio Sardi cominciava ad acquistare contorni più nitidi.

A parlarne adesso sembra ancestrale, fuori dal tempo, ma questo è più che mai un racconto del Novecento, intrecciato con quello di un paese, di un territorio e di un continente.

Per anni la sua è stata – e lo è ancora – una storia che si racconta spesso in famiglia. Della sua vita avventurosa ci vantiamo. Fin da piccolo mi è capitato si sentirla. Il nonno racconta spesso di questo suo cugino acquisito, i’ Sardi, come lo chiamavano a Meleto e a San Cipriano. La sua storia merita di essere raccontata e assomiglia a quelle di molti altri della Toscana di allora.

Questo racconto di vita inizia in un giorno di settembre del 1901, quando un bambino figlio di ignoti nasce nel comune di Castellina in Chianti, nel senese. Il bimbo passa in un istituto a Siena i primi mesi della sua vita, per poi risiedere in alcune famiglie nel comune di Trequanda.(1) Nel 1909, dopo aver già vissuto in due famiglie, arriva nella famiglia del fratello del mio bisnonno materno, nel comune di Cavriglia.(1) A quel tempo è comune per le famiglie contadine non molto numerose prendere in affidamento dei ragazzi orfani. Questi giovani meno fortunati vengono chiamati Birchi, proprio a dare l’idea delle loro precarie e sfortunate vicissitudini, e forse non senza malizia.

La famiglia di Antonio vive a strettissimo contatto con quella del mio bisnonno, condividendone le mansioni di mezzadri. Stringe un legame affezionato con Francesco, il padre di mio nonno. Mio nonno stesso mi ha detto più volte che loro due – e questo è un altro vanto di famiglia – conobbero Attilio Sassi, storico sindacalista e segretario dei minatori valdarnesi con l’Unione Sindacale italiana (USI) e poi, nel dopoguerra, dirigente nazionale della CGIL.(3)

Fino al 1919 il Sardi rimane a casa loro, poi si sposta nel vicino comune di San Giovanni Valdarno, dove comincia a lavorare nelle miniere di Sabbioni. Dal fascicolo dell’ISGREC sappiamo che effettuò il servizio militare, probabilmente nel 1918, presso il 5° Reggimento del genio del Regio esercito.(1) Dallo stesso si sa che fa parte degli Arditi del popolo, un’organizzazione di veterani e di popolani di sinistra, fondata nel 1921, che prende le difese dei ceti meno abbienti dalle violenze dello squadrismo.(1) Questi sono di varia provenienza ed estrazione: socialisti, comunisti, libertari, repubblicani, popolari, radicali, o anche solo persone che ne hanno avuto abbastanza delle coercizioni squadriste. Per queste ragioni, stando al fascicolo e ai ricordi di famiglia, si sa che è condannato a tre anni e venti giorni di reclusione, nel 1921, per scontri con i fascisti.(1)(8)(3) Furono anni turbolenti: nel marzo dello stesso anno, in Valdarno, si ebbero scontri armati fra squadristi e militanti di sinistra.(3)(4)(8)

Silvio deve fuggire e nascondersi. Su di lui, come dice il nonno, c’è una taglia: ventimila lire, vivo o morto. Divertito, mi racconta spesso di come il Sardi, nelle sue fughe, si divertisse a sbeffeggiare gli squadristi con travestimenti improbabili e di come spesso riuscisse per questo a sfuggirgli. Ha talvolta una leggerissima ed episodica zoppia, mi racconta il nonno, forse eredità di una paralisi avuta nei primi anni di vita, e per questo teme che lo riconoscano.

Nel novembre del 1922 il Sardi scappa in Francia.(8) Lo fa, come suppone il nonno, passando per la Val di Pesa, dove spesso ama andare alle sagre di paese. Si rifugia a Marsiglia, dove stringe dei contatti con gli esuli antifascisti locali e altri immigrati valdarnesi e, secondo le ricostruzioni dell’ISGREC, lavora prima in alcuni frantoi locali e poi come portuale.(1)(8) In quegli anni, molti oppositori antifascisti sono costretti ad espatriare; tanti di loro, sempre più emarginati, per lavoro e non, sono costretti a farlo.(8)

Fra il 1923 e il 1930 vive in varie cittadine del Dipartimento di Saint-Denis e sul finire di questo periodo si stabilisce a Parigi, dove lavora presso la casa di pittura di un certo Anselmini, sotto lo pseudonimo di Raffaello Ciantelli.(1) Mio nonno dice che il Sardi assunse questo cognome in onore di un suo amico di Meleto, ma non ho avuto modo di saperne di più. Nel suo fascicolo nella banca dati dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri il suo pseudonimo è riportato come Raphael Chantelli, e il suo fascicolo lo scheda come comunista.(6) Successivamente, dal 1930 al 1932, secondo la ricostruzione dell’ISGREC, si sposta a Montreuil sur Bois, sempre nel Dipartimento omonimo e poi, per otto mesi, finisce a Lorient, in Bretagna.(1)

Dopo essere tornato a Parigi, sembra trovare un po’ di felicità: qui, infatti, convive con un signora francese di cui alleva i due giovani figli.(1) Anche il nonno si ricorda di questo, ma non sa se dopo il ‘45 Silvio rimane in contatto con la sua famiglia francese.

Nel file dell’ISGREC, preziosissima fonte di informazione, riusciamo a colmare dei vuoti che da soli non riuscivamo a fare, e sappiamo che nel 1934, dopo essere stato testimone indiretto di un omicidio, viene accompagnato dalla polizia alla frontiera belga.(1) Da qui si stabilisce ad Anversa fino al giugno del 1935, lavorando come tappezziere.(1) Si comincia a intravedere quello che il destino ha in serbo per lui, poiché da qui si sposta e va clandestinamente nella Barcellona repubblicana, dove trova impiego come pittore e collabora con una locale cooperativa di artisti.(1)

Come l’ISGREC segnala, ci sono interrogatori della Prefettura di Siena dove si dice che il Sardi sarebbe stato coscritto coercitivamente dal 1936 al ‘37. (1) Lo stesso file, però, cita che molte altre fonti lo danno nel 1937 come arruolato nella XII° Brigata internazionale nella guerra di Spagna. (1) Il suo fascicolo presso l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri dice che combatte nel Battaglione Garibaldi, allora comandato da Randolfo Pacciardi, composto da volontari antifascisti italiani.(6) Dai due fascicoli si apprende che combatte in Aragona, a Caspe, un paesino a un’ora di macchina da Saragozza e da Huesca.(1)(6) Da qui, il confine con la Catalogna non è lontano: probabilmente, azzardo io, prende parte ai combattimenti che portano all’offensiva di Aragona nell’agosto del ‘37 da parte repubblicana, che però finisce in un sostanziale stallo. Quella regione, considerata dai repubblicani come la più strategica per il transito di uomini e rifornimenti nel periodo della guerra civile, ha un’influenza determinante.

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(Paesaggio e cielo spagnoli, Toledo, 2017, ph. autore)

È qui che i ricordi del nonno si acuiscono, la memoria si spalanca e comincia l’epica. Nel dopoguerra lo stesso Sardi, con quella oratoria di cui il nonno rimaneva sempre colpito, raccontava delle sue peripezie sul fronte occidentale, in Spagna. Diceva di essere stato comandante del suo piccolo distaccamento in quei disperati giorni di resistenza contro le forze nazionaliste del futuro Caudillo Francisco Franco. Di lui il nonno dice che era una persona dall’indole ribelle, quella di chi vuol esser padrone di sé. Avendo letto le carte, non faccio fatica a credergli.

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(Toledo, Spagna 2017, ph: autore)

Dopo 3 mesi di combattimento, le fonti dicono che torna in Francia e viene internato nei campi di Santé e a Fresnes.(1) Nel 1938, dopo essere stato rilasciato, viene di nuovo arrestato, ma riesce a liberarsi e a vivere in segretezza sul suolo francese fino a che, nello stesso anno, torna a unirsi alle Brigate internazionali in Spagna.(1)(6) Qui viene ferito e ritorna in Francia.(1) Infatti mio nonno dice che il Sardi gli raccontò di aver preso parte alla ritirata in quegli ultimi giorni frenetici della guerra civile. Proprio in quell’anno, con la seconda offensiva di Aragona, i territori controllati dalle forze repubblicane sono tagliati in due dalle truppe di Franco, con un esisto ormai sempre più segnato. Dirottato su Parigi, viene nuovamente arrestato e portato alla frontiera belga; rientra in Francia e viene nuovamente arrestato: da qui viene internato nel campo di Rieucros, sempre nel ’39, ma riesce a scappare e viene nuovamente fermato dall’autorità giudiziaria.(1) Dal suo fascicolo online dell’ISGREC si sa che riesce ad ottenere un rinvio per il suo ordine di espulsione e si arruola nella Legione straniera francese, sempre nel 1939, ma attende di venire aggregato ai suoi ranghi fino al 1940.(1) Sempre da qui si sa che è assegnato, a conflitto mondiale scoppiato, al seguito delle truppe britanniche per eseguire dei lavori in Bretagna.(1) Per la Pasqua va a Parigi per motivi imprecisati e viene nuovamente arrestato per le sue simpatie libertarie.(1) Internato al carcere di Roland Garros, viene successivamente portato al campo di Vernet, nella regione di Tolosa, dove ha come numero di matricola 1550.(1) In questo campo, in periodi differenti, sono internati anche molti altri antifascisti italiani come Giuliano Pajetta, Luigi Longo, Leo Valiani e Francesco Fausto Nitti.(7) Da qui, come si evince dal fascicolo, rifiuta di essere rispedito in Italia perché oramai afferma di aver stabilito dei legami familiari in Francia.(1)

Nonostante ciò, dopo una domanda di rimpatrio, viene riportato in Italia nel 1941 in qualità di “reduce delle Brigate internazionali”, dove passa tre anni al confino a Ventotene e poi a Renicci, nei pressi di Anghiari.(1)(5)(6) Nel 1943, con la caduta del Fascismo, il regime di confino non sussiste più e scappa.(1) Dagli studi del Prof. Acciai si sa che il Sardi, verosimilmente in quel periodo, fu uno dei primi fondatori delle bande partigiane nell’empolese.(2) Da qui possiamo immaginare che avesse sempre avuto conoscenze e amicizie in quella zona, anche precedenti alla guerra.

Catturato dai nazi-fascisti, è internato nel campo di prigionia di Kiel, nel Nord della Germania, e da qui riesce a rimpatriare in Italia nel 1945.(1) Il nonno stesso mi dice che, durante il periodo di prigionia del Sardi in Germania, il mio bisnonno tenta di avere sue notizie, ma senza esito. Silvio, una volta tornato in Valdarno, rimane per un po’ di tempo a San Cipriano e ritrova i parenti da cui aveva dovuto separarsi. La guerra era passata e aveva mietuto fra le sofferenze di chi ne era stato vittima o spettatore impotente. È in questo periodo che mio nonno incontra per la prima volta il Sardi.

Da qui si apre un’altra storia, da ora in poi userò il passato.

Nel dopoguerra, Silvio decise di trasferirsi a Milano. Qui il nonno mi dice che lavorò come imbianchino, forse mettendo su una ditta tutta sua. Per quel che ne sappiamo, con i saltuari collegamenti che si avevano al tempo, viveva solo. I ricordi di mia mamma e di mio nonno s’intrecciano, perché oltre a questo c’è il ricordo un po’ sbiadito di un signore distinto, di media statura, dai tratti un po’ marcati e con pochi capelli, che scendeva da un treno alla stazione di San Giovani Valdarno e portava un regalo a una bambina. Ma anche il ricordo di un uomo che si divertiva a discutere degli anni che furono, di quel passato che lo aveva tenuto lontano da casa, con mia mamma che ascoltava quei racconti dei giorni di Spagna. Erano le storie di un uomo che aveva conosciuto il mondo. Silvio aveva vissuto, perso l’accento e visto tanti luoghi.

Tornare in Valdarno era un modo per ritrovare i conoscenti e gli amici di un tempo, anche se forse non tutti. Diceva che era vicino alla pensione e che sarebbe tornato qui, magari per recuperare un po’ di quello che aveva perso. Erano gli anni ‘60, era un’altra Italia. Per mano del nonno so che Silvio aveva già cominciato a mandare un po’ dei suoi attrezzi da lavoro in Valdarno, ma da un giorno all’altro non seppero più niente. Dopo un po’ di tempo, purtroppo, vennero a sapere che il Sardi, il Raffaello o Raphael Ciantelli degli anni da esule, era deceduto. Probabilmente era avvenuto mentre stava lavorando, per una caduta da un’impalcatura. Questo fu ciò che venne riferito alla mia famiglia.

E qui apparentemente si ferma una ricerca che deve continuare e andrà avanti. Se potrò, tenterò di colmare i vuoti temporali di questa storia. Continuerò a cercare, perché la seconda parte della sua vita rimane per noi un capitolo incompleto, una terra inesplorata che merita di essere riscoperta. Una vita fatta di continui pellegrinaggi con attorno a sé il mondo, il vero paesaggio dell’anima. Silvio Sardi, come un Ulisse, ha vagato per la terra, senza mai scordarsi di dove era passato.

Ci sono alcune immagini che difficilmente mentono: aprono una porta sul passato, perciò ne cercherò sicuramente altre. Per questa ragione, le storie sono fatte per essere condivise. Certe volte la vita è una questione di perseveranza e di speranza: e così, talvolta, si riesce davvero a essere liberi dentro. E forse lui, passando attraverso mille peripezie, è stato libero davvero. Di loro, degli esuli antifascisti, si parla poco purtroppo, ma a loro dobbiamo tanto. La storia di questo paese nel secondo Novecento è figlia dei loro esodi forzati, dei loro sacrifici e del loro impegno politico lontano da una nazione che sembrava averli dimenticati.

Alcuni uomini fanno testamento. Per altri, invece, il testamento consiste nel significato profondo della loro esistenza e delle azioni compiute in vita. In famiglia siamo orgogliosi della sua storia, perché lui è da sempre parte della nostra. La sua memoria è ora parte di noi, ancora di più. E corre con il vento. Forse un giorno andrò a Caspe, fra le colline assolate dell’Aragona, e passeggerò nelle stesse strade sferzate dal viento de levante in cui ha camminato i’ Sardi, o per quei vicoli di Marsiglia battuti dal mistral. Chissà, magari con la speranza di trovare un’altra porta sul tempo.

Perché forse la vita, come la memoria, è una questione di radici, non di catene.

Epilogo (momentaneo)

Appena ho ricevuto i documenti su di lui, li ho mostrati a mio nonno. Mentre guardava quei fogli gli sono brillati gli occhi: stava ricordando. Mi pare che anche lui abbia detto Sì, lui era di settembre. Glie li ho lasciati e sono uscito. Ero soddisfatto: poche volte lo ero stato così. Come se avessi quasi reso giustizia a qualcuno; come se il ricordo, per una volta, avesse vinto sul tempo e la storia avesse ritrovato un suo personaggio.

Per l’appunto, tutto questo è successo tempo fa, in un giorno di settembre. Era nato di settembre…

Francesco Valdambrini

Bibliografia:

(1) http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/all_ita_details.asp?offset=330&id=2714, consultato il 16/03/2019; anche in Ilaria Cansella, Francesco Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti nella guerra civile spagnola. Le biografie, ISGREC Quaderni n. 2, Effigi, Arcidosso, 2012. Cfr. con ADEA b. 5W219 f. 1139, Sardi Silvio. Cfr. anche con Giorgio Sacchetti, Renicci 1943, Roma, Aracneeditrice, 2013, pp. 160-161. Il fascicolo è stato gentilmente fatto visionare dall’Istituto.

(2) Enrico Acciai, Una guerra senza pensioni e senza medaglie, le traiettorie dei reduci antifascisti italiani di Spagna tra prigionia, resistenza e dopoguerra, Istituto Storico della Resistenza in Toscana (Firenze), Italia, pp. 113-114.

(3) Giorgio Sacchetti, Camicie nere in Valdarno. Cronache inedite del 23 marzo 1921 (guerra sociale e guerra civile), Pisa, Bfs, 1996.

(4) Giorgio Sacchetti, Ligniti per la Patria Collaborazione, conflittualità, compromesso. Le relazioni sindacali nelle miniere del Valdarno superiore (1915-1958), Roma, Ediesse, 2002.

(5) Giorgio Sacchetti, Renicci 1943, Roma, Aracneeditrice, 2013, pp. 160-161.

(6) http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=2690, consultato il 15/03/2019.

(7) http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/vernet_ita.htm, consultato l’08/02/2019.

(8) Enrico Acciai, Viaggio attraverso l’antifascismo. Volontariato internazionale e guerra civile spagnola: la Sezione Italiana della Colonna Ascaso, Tesi di dottorato, da DOI: file:///D:/Download/eacciai_tesid.pdf, consultato il 25/01/2019.

La ricerca e la stesura sono avvenute tramite la consultazione delle fonti sopra elencate.

Ringraziamenti

Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche effettuate e che mi hanno dato l’autorizzazione all’uso dei materiali istituzionali come fonti. Ringrazio il Prof. Sacchetti e il Prof. Acciai per il loro preziosissimo aiuto nelle ricerche e per l’autorizzazione all’utilizzo dei loro lavori, come altrettanto ringrazio l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza (ISGREC) per la disponibilità e la pazienza con la quale mi hanno assistito. Il mio ringraziamento va anche all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e al Dott. Torre per l’aiuto e la disponibilità. Gli istituti storici e gli storici stessi svolgono un ruolo fondamentale: senza di loro, la nostra memoria storica si dissolverebbe. Li ringrazio anche a nome dei miei cari. Inoltre, vorrei puntualizzare che questo racconto non ha fini politici, ma solo divulgativi. L’unico mio intento è stato quello di ridare voce alla storia di un uomo libero, di conservare il ricordo di una persona e della sua storia. Non so se il mio sia un resoconto imparziale, ma l’unico mio scopo era ricercare e ricordare.

PRIMA DI TUTTO CITTADINI

In un mondo fortunatamente plurale, sempre più spesso si vive in contesti multilaterali. L’educazione, perciò, svolge un ruolo importante…

Forse l’istruzione avrebbe dovuto porre maggiore attenzione nel creare dei cittadini europei, e poi degli studenti. Il risultato avrebbe dovuto essere un’attenzione sui programmi scolastici, fra lo studio della contemporaneità e delle lingue comuni. Si, perchè non si può avere un dialogo fra diverse realtà, anche fra normali cittadini, se non si trova un piano linguistico con il quale interfacciarsi.

Ecco perchè, forse, non è stata posta la necessaria enfasi sullo studio delle lingue comunitarie, di quelle lingue ponte che usiamo per interfacciarsi con le altre nazionalità. La storia ci ha insegnato che non ci può essere un credo comune, più o meno comune, se non c’è una lingua comune più o meno condivisa.

A molti sembrava un’eccessiva preoccupazione per il qui e ora, ma le ultime generazioni non sono state educate a essere cittadini europei nel modo in cui avrebbero dovuto. Dovremmo parlare meglio le lingue comunitarie, ma in generale non lo facciamo quanto dovremmo. Non conosciamo le istituzioni europee a dovere, anche perchè ce ne hanno parlato sempre poco ( e spesso, purtroppo, neanche in famiglia se ne conosceva bene il funzionamento). In questo, un sistema educativo nel quale le conoscenze enciclopediche sono ancora un criterio costante di merito (non dico che non lo debbano essere, ma in maniera più bilanciata rispetto alle competenze), probabilmente non ha aiutato.

Sapere ottimamente il greco e il latino, per un giovane, può essere una buona cosa, ma non sapere una parola di inglese, nelle stesse condizioni, è come essere un viticoltore con una vigna prospera e fertile e non avere i mezzi per vendere il proprio vino, ovvero divulgare il proprio sapere o le proprie considerazioni di cittadino. Secondo me, dunque, la conoscenza enciclopedica non può non accompagnarsi a quella pratica, altrimenti si corre il rischio di trincerarsi in una torre d’avorio e di non avere gli strumenti per interpretare il presente. Si, il sapere è importante principalmente per sè stessi, ma arriverà il momento in cui le proprie opinioni andranno espresse, palesate, anche e democraticamente usando gli strumenti digitali. Questo, per me, vale comunque per tutte le materie e i campi di studio.

Quando le gente, dialogando, non si capisce, si allontana. E quando si allontanta il sapere non circola, come non circolano le idee e le libere opinioni. Ecco perchè soluzioni eccessivamente ideologiche, come disprezzare l’aziendalismo e l’empirismo di certe soluzioni, non è la risposta giusta. Formare cittadini tramite il sapere e le competenze dovrebbe andare di pari passo: le conoscenze, da sole, non bastano. Servono anche le competenze utili a formare una cittadinanza. La scuola serve anche a questo: insegnare a dialogare su più piani, dando competenze, è lo scopo principale nel formare la cittadinanza del futuro.

Insegnare a uno studente a parlare con un coetaneo di un’altra nazione in una lingua comunitaria, per me, è anche compito della scuola. Insegnare a uno studente a riconoscere una fake news, per me, è anche compito della scuola. Insegnare a uno studente a comprendere un articolo di giornale, per me, è anche compito della scuola. Insegnare a uno studente il funzionamento delle istituzioni, anche con l’Educazione civica italiana ed europea, è soprattutto compito della scuola. Insegnare a uno studente a capire la società e l’economia del luogo in cui vive, è anche compito della scuola, come è compito della scuola insegnare la storia.

Pensiero e azione, con la Democrazia. Sarebbe il più grosso favore verso i cittadini di domani, e di oggi.

Langravio

Francesco Valdambrini

NOTTURNO JAZZISTICO

Una passeggiata notturna, fisica o mentale, a suon di Jazz…

La notte, proprio quando è più buia, si posa sui tetti delle ultime, sparute case di periferia. Proprio come il suono delicato di una tromba in un pezzo cool, cade lentamente dal cielo stellato e si posa sui tetti.

La temperatura è di qualche grado sotto lo zero. Per chi non è eccessivamente freddoloso, è il tempo dell’introspezione. Camminando o standosene sdraiati sul letto, poco importa. Il pensiero si dilata proprio come la tromba di Chet Baker in Almost Blue. Il buio fa da stimolo alla mente per il suo viaggio. Il paesaggio esteriore della notte abdica per un momento a quello mentale. Si comincia veramente a pensare, a riflettere.

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(Foto: Public domain picture, source: pexels)

È freddo, ma i pensieri sono caldi come la tromba di Miles Davis in Blue in Green. Il pensiero si espande in orizzontale, esplora risvolti che il giorno impedisce di vedere. Il mondo si dilata. Le migliori pensate vengono di notte.

Si, come avrebbe detto Bill Withers, “non c’è il sole”, ma forse è meglio così. Dove non arriva la frenesia del giorno, della luce che abbaglia, arrivano i pensieri notturni al ritmo soffuso del Jazz più cool. Se si cammina, il ritmo malinconico del sassofono di Coltrane fa rallentare il passo, allentare il ritmo. Il piede pesta il suolo con più dolcezza, i tendini si allentano e si distendono. Le onde sonore vibrano piano, ondeggia piano e si allunga il diaframma.

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(Source: pexels)

Ecco che la notte ti accompagna in un viaggio attraverso tutto ciò che non si vede durante il giorno, tra le sfumature che la luce abbagliante non ci mostra. Il silenzio è molto jazz, di quel jazz ombroso ma riflessivo e misurato. Stiff upper lip, direbbero gli inglesi.

Ogni canzone comincia lenta: alcune sono più scontrose e diffidenti, ma tutte procedono a passo lento come i pensieri. Ti aiutano a far si che la notte si posi dolcemente anche sulle tue spalle, e i pensieri ti accompagnino verso il sogno. Il divagare della mente si consuma lentamente, come una fiammella sul fuoco, come un brano di Gerry Mulligan che ho sentito qualche tempo fa. Sfumato, dalla percussione felpata. La playlist scandisce il ritmo flemmatico del pensiero notturno. Scorre piano, a rilascio graduale. Si ha il tempo di assaporare ogni nota. La vista smette di essere il punto di riferimento: la mente e l’udito ti guidano nella notte, poco prima del sonno. E quando arriva il momento di assopirsi, noi e i nostri pensieri siamo stati cullati dal ritmo lento di un sassofono che non a caso si trova lì, in quel punto della notte.

Anche la notte ha le sue luci (come le Night lights di Mulligan), ma sono meno invadenti di quelle del giorno, più misurate. A ciascuno il suo, qualcuno ha detto.

Tenera è la notte, ha scritto F. Scott Fitzgerald. Gli do ragione: è come una coperta per i pensieri. E nella notte, con la mente e con i piedi, ce ne andiamo sulle note, poco sul serio. Improvvisando, in rapsodia.

La passeggiata continua….

 

Langravio

 

 

N.a. [Scrittura creativa, elaborato di fantasia]

Ritratti di cinema: Van Gogh

Comincio col mettere le mani avanti: di arte non ne so molto. Qui, infatti, vi parlo più di un’interpretazione che di una vita artistica. Si, perchè l’ultimo adattamento cinematografico sulla vita di Vincent Van Gogh ha provato ancora una volta la bravura e la maestosità di un attore, Willem Dafoe.

Che fosse un grande professionista non ci sono dubbi, e quest’ultimo film, che gli è valso anche la Coppa Volpi a Venezia, ha dimostrato quanto sia un grande artigiano della recitazione e quanto ne possegga tutti gli strumenti. Il suo Van Gogh è un uomo alla ricerca del colore, dell’intuizione cromatica: quello è il suo Graal. Impressionanti certe inquadrature, come certe somiglianze.

Un outsider, il Van Gogh del film è un pittore girovago, esploratore. Turbolento, appartato, ma alla ricerca di un contatto con un mondo che non sembra capace di comprenderlo, come non pareva comprenderne l’arte in vita. La sua arte, il mezzo con il quale tenta di essere in pace con il mondo e con sè stesso, è il tramite che, solo in maniera postuma, ha fatto riconoscere la sua prospettiva al mondo, i suoi momenti felici e le sue inquietudini. La sua arte è rapida, e rapido è il suo modo di percepire il tramite naturale. Il suo ponte con il mondo circostante.

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La colonna sonora, poi, aiuta ad immedesimarsi in tutti quei momenti nei quali Van Gogh è alla ricerca della metamorfosi e della pace compositiva. Specialmente belli i brani per pianoforte. Bellissimi e suggestivi, poi, sono i paesaggi del Sud della Francia.

Dafoe ha reso onore ha un grande artista, immortalandone quelle angosce che gli hanno spalancato le porte di ingresso nel canone perchè parte della sua arte. Un grande attore ha reso onore a un grandissimo artista, forse immortalandone la figura nel periodo della vita che lo ha più caratterizzato. La consacrazione assomiglia molto a un campo di grano sferzato dal vento al sole del tramonto estivo.

L’eternità c’è già, ed è maestosa.

Langravio

Il cacciatore di ipocrisie

 

“Facile è, a scorgersi, l’errore altrui. È difficile, invece, scorgere il proprio.”

(Buddha)

 

Il cacciatore di ipocrisie, eterno e valente baluardo di immobilismo coerente, ci dà una lezione su come ci si dovrebbe comportare, cioè su come si dovrebbe stare fermi e non prendere mai una posizione su niente; almeno nessuno, secondo lui, ce lo rinfaccerà in futuro:

«Tu, che prendi una posizione, sappi che ho preparato una scala per misurare quanto sei coerente con la tua scelta. Se alla fine scoprirò che non lo sei, verrai processato dalla mia pancia. Quella sì, caro amico, non fallisce mai.

Tu, che hai preso una posizione, sappi che col mio metro spulcerò e segnerò sul taccuino tutto quello che hai detto, armato di “l’avevo detto io” e di “vergogna.”  Poi, appena cadrai in errore, rispunterò fuori, immobile sul mio scranno, e ti giudicherò dall’alto del mio apatico candore.

Tu, che hai espresso un parere, dovrai guardarti bene dalla mia lente e dal mio giudizio immacolato. Non sai in che ginepraio ti sei infilato. Vado in giro sul mio seggio, il giorno dopo il cambiamento, a cercar la colpa per il mondo.

Di qualcuno è certamente, ma mia no, assolutamente. Della libera opinione, io sono l’inquisitore!

E non macchiarti di oltraggio, stimato amico, ribattendo e domandando di chiarir la mia posizione. Di lesa maestà ti macchieresti!

Ma soprattutto sappi, gentile amico, che già di uno spregevole reato ti sei macchiato, e per questo sarai comunque condannato: hai preso una posizione.»

Alcune verità sono scomode, altre solo indolenti. Meglio le prime o le seconde?

Langravio

Francesco Valdambrini (nel caso qualcuno avesse da ridire)

 

#voleodire

 

N.A.: il pezzo, come consueto, ha un tono satirico e umoristico, e non ci sono riferimenti a fatti o persone reali. Solo una sana e pacifica volontà di prendersi meno sul serio. Questo è un articolo di qualche mese fa.

 

 

 

 

 

BREVE ELOGIO DELLA PESANTEZZA (ANCHE AL CINEMA)

«La profondità va nascosta alla superficie.»

(Hugo Von Hoffmannsthal)

 

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Nell’era dei 200 caratteri scavare in profondità, su tutto, è diventata un’attività degna di qualche eretico medievale o de L’incendiario di Palazzeschi. Questi margini chiusi ci obbligano a muoverci in spazi ristretti, e talvolta ad esprimerci con frasi lapidarie, o al massimo degne di un proverbio da scatola dei biscotti, su argomenti che richiederebbero approfondimenti e lunghe discussioni.

Così si è parzialmente persa la capacità di discutere, di confrontarsi e di esprimere la propria opinione, possibilmente usando più di 10 parole.

Si perché oggi, oramai, pare che la lievità (pure quella naif) la faccia da padrona. L’epoca della brevità d’espressione ha portato a non approfondire quasi niente, nemmeno quello che per natura non può esserlo.

Da questo bisogno compulsivo di brevità (sempre e comunque) non sembriamo mai prescindere. Basti pensare all’eccessiva linearità della maggior parte dei film che vediamo al cinema oggi, alla comunicazione pubblicitaria e a quella politica (dove spesso, per farla breve a chi ascolta, si inveisce pure), alle normali conversazioni che intratteniamo con le persone nella vita di tutti i giorni, dove l’approfondimento, seppur necessario se si affrontano certe questioni, sembra essere il peggiore dei tabu. Non è per frenesia, per pragmatismo linguistico o per bisogno di immediatezza decisionale: è lo spirito del tempo, lo zeitgeist.

Non a caso il cinema d’essai, come in generale i prodotti culturali di una certa profondità, ha man mano perso nei riguardi del Pop, di quello che imperversa da tutte le parti e non è mai pesante, nemmeno lontanamente. Nemmeno al cinema, quando trame e atmosfere ci parlano per rispecchiamento, sembriamo riflettere e abbandonarci alla profonda riflessione.

“Ma la gente, quando la sera torna a casa, non vuole molte preoccupazioni: si vuole rilassare.”

E così, molto spesso, non si parla, non si dialoga in maniera approfondita. Le nuove generazioni, alle quali il sottoscritto appartiene, sembrano aver perso (senza ingiustamente generalizzare, sia chiaro) più di tutte questa capacità di approfondire, di darsi una pesantezza che sa di sostanza.

Si, certo, la pesantezza non è sempre sinonimo di profondità. La stessa pesantezza, talvolta, è una profondità che non ce l’ha fatta, ma almeno c’ha provato. Oggi, spesso, una conversazione con qualche parola in più diventa un “pippone”, un monologo apparentemente senza fine. Insomma, per lo spirito del tempo “una noia mortale”.

Ma possiamo anche andare avanti: un film con poche battute divertenti diventa un film “che non scorre”; un amico che parla spesso di attualità o che diventa improvvisamente loquace con l’argomento giusto è “un palloso”; una conversazione senza urli, con qualcuno che esprime civilmente la propria opinione per più di trenta secondi, “una pesata pazzesca”. La lista, forse, potrebbe andare avanti all’infinito. Ma dietro a tutto ciò, dulcis in fundo, c’è pure un paradosso: nonostante tutto ciò, mal sopportiamo i silenzi. E allora, quando ci abbandoniamo alle parole, lo facciamo parlando molto, ma alla fine non diciamo niente.

#voleodire

Langravio

Francesco Valdambrini


Nota dell’autore: l’articolo ha volutamente un’impostazione astratta, dato il tono satirico e l’ampia trasversalità dell’argomento trattato.

 

BUSCANDO QUIXOTE

È nel canone della letteratura occidentale e nella mente di tutti noi: è il Don Quixote. Nella mente di tutti è il simbolo della battaglia dell’uomo contro le circostanze, contro i tempi e le idee che cambiano.

(Foto: Toledo, Spagna, ph. Autore)

È parodia, si, ma è anche la storia di un uomo che cavalca assieme alle sue idee. Combatte per difendere quello in cui crede e affronta i suoi demoni. Il deserto e il suo scudiero sono gli spettatori di queste bizzarre avventure. Sguaina la spada, imbraccia la lancia contro i fantasmi di un’epoca che al tempo stava tramontando e che oggi è quasi dimenticata fra gli scaffali delle biblioteche.

(Foto: panorama castigliano, ph. autore)

Duella con il mondo e non perde la sua purezza, anche a discapito delle sue febbrili tribolazioni. È ligio al dovere, idealista, intransigente, grottesco di fronte ai tempi che cambiano, e si flagella l’animo e il corpo se pensa di aver violato il codice di un buon cavaliere. Ma forse, come ogni uomo che sogna, chiede troppo da sé stesso.

A lui la realtà non basta: esige qualcosa di più. Per questo osa, erra, pena in cerca di qualcosa che possa elevare il suo spirito. La sua figura è triste, ma intatta. Oltre a questo hidalgo di mezza età, la letteratura fa miracoli e riesce a trasformare, per difetto, anche un contadino analfabeta, un cavallo e un asino in dei paladini della giustizia.

L’elemento grottesco è la chiave di lettura di un libro che segna il passaggio da un’epoca di sognatori a una in cui il buon senso non ha tempo per parlare di codici cavallereschi. A Sancho, il suo padrone pare un pazzo (può darsi che lo sia, ma fino a quanto?). Anche agli occhi degli altri lo sembra, ma non ai suoi, a quelli di un cavaliere.

Forse il modo di essere di Quixote è un solipsismo, o forse un orgoglioso quanto grottesco (per noi) codice morale.

Eppure a volte, nella vita, si erra per darsi un senso. E lui, il cavaliere, pur non riuscendo nel suo compito, non abbandona i suoi valori. Capisce d’aver fallito, ma non di aver perso. Nel profondo, nonostante la tristezza, forse pensa di non aver sbagliato a scegliere di credere in qualcosa di diverso. La sua vicenda è una metafora: forse la stessa alla quale Hemingway si riferiva quando scriveva che un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto (1).

Là fuori, fortunatamente, ci sono ancora dei Quixote. Se li vedete, per favore, fate loro i Vostri omaggi.

Langravio

Francesco Valdambrini

Fonti:

(1) https://letteralmente.net/frasi-celebri/ernest-hemingway.php

Trovate questo post anche su: http://www.radiovaldarno.info/buscando-quixote/