Il cacciatore di ipocrisie

 

“Facile è, a scorgersi, l’errore altrui. È difficile, invece, scorgere il proprio.”

(Buddha)

 

Il cacciatore di ipocrisie, eterno e valente baluardo di immobilismo coerente, ci dà una lezione su come ci si dovrebbe comportare, cioè su come si dovrebbe stare fermi e non prendere mai una posizione su niente; almeno nessuno, secondo lui, ce lo rinfaccerà in futuro:

«Tu, che prendi una posizione, sappi che ho preparato una scala per misurare quanto sei coerente con la tua scelta. Se alla fine scoprirò che non lo sei, verrai processato dalla mia pancia. Quella sì, caro amico, non fallisce mai.

Tu, che hai preso una posizione, sappi che col mio metro spulcerò e segnerò sul taccuino tutto quello che hai detto, armato di “l’avevo detto io” e di “vergogna.”  Poi, appena cadrai in errore, rispunterò fuori, immobile sul mio scranno, e ti giudicherò dall’alto del mio apatico candore.

Tu, che hai espresso un parere, dovrai guardarti bene dalla mia lente e dal mio giudizio immacolato. Non sai in che ginepraio ti sei infilato. Vado in giro sul mio seggio, il giorno dopo il cambiamento, a cercar la colpa per il mondo.

Di qualcuno è certamente, ma mia no, assolutamente. Della libera opinione, io sono l’inquisitore!

E non macchiarti di oltraggio, stimato amico, ribattendo e domandando di chiarir la mia posizione. Di lesa maestà ti macchieresti!

Ma soprattutto sappi, gentile amico, che già di uno spregevole reato ti sei macchiato, e per questo sarai comunque condannato: hai preso una posizione.»

Alcune verità sono scomode, altre solo indolenti. Meglio le prime o le seconde?

Langravio

Francesco Valdambrini (nel caso qualcuno avesse da ridire)

 

#voleodire

 

N.A.: il pezzo, come consueto, ha un tono satirico e umoristico, e non ci sono riferimenti a fatti o persone reali. Solo una sana e pacifica volontà di prendersi meno sul serio. Questo è un articolo di qualche mese fa.

 

 

 

 

 

SIGNOR FUTURO

Ovvero Il frasario della speranza e relativo commento

 

Avvertenze: luoghi comuni e sarcasmo ova nain tausand.

 

“Questa sarà una storia da raccontare ai miei nipotini quando sarò in pensione.”

Già, la pensione. Aspetta, ti passo il binocolo.

“Comprerò una casa tutta mia, anche a costo di prendere un mutuo.”

Ah, ho capito. Scusa, ma che lavoro fai di preciso?

“Un giorno voglio avere una famiglia tutta mia.”

Scusami, devi aver capito male….

“Ti voglio bene.”

Sai, però ti vedo solo come un co… ehm, un amico.

“Noi giovani dobbiamo impegnarci più in politica.”

Ma nel frattempo chi l’ha detto ha già cambiato discorso.

“Stavo giusto pensando a te.”

Si, come no. E io stavo giusto giusto per diventare un astronauta, solo che ho pensato che un eterno contratto interinale fosse meglio.

“Noi giovani (chi, io?) dobbiamo essere tutti più autonomi, indipendenti.”

Vero. Già, domani mi scade il contratto di una settimana.

 

“Futuro, scusa, dove sei? Ho provato a chiamarti, ma non rispondi. Hai la segreteria telefonica…”

 

Avrei potuto anche metterci “una volta era meglio”, ma poi ho pensato che c’è troppa gente che crede che il futuro sia ieri, quindi meglio di no.

 

E vissero tutti felici e contenti. E forse non si lamentarono delle rughe, ma di altro…

N.a. Non lamentiamoci. Facciamo. E prendiamoci poco sul serio.

P.S. Riferimenti a fatti o persone reali sono puramente casuali.

 

#voleodire

Francesco Valdambrini

Trovate questo post anche qui: http://www.radiovaldarno.info/signor-futuro/

 

MADAMA LA PROVINCIA

“Ah, perchè mi vorreste dire che c’è qualcosa oltre quel muro?”

L’ho sempre detto e lo ripeto: la provincia non è un stato geografico, ma mentale. Questa condizione, spesso, affligge intere nazioni. Certi atteggiamenti, scelte e decisioni ne sono un sintomo lampante.

Tanti dicono che questa signora sia come l’ippogrifo: un essere mitico, lontano, irraggiungibile, di cui tutti parlano ma che nessuno ha mai visto, che esiste solo nei libri. Per altri manco c’è.

Cosa?

Quella sensazione di sollievo nel vedere come niente cambi, come tutto rimanga com’è, con quel passatismo che fa essere sprezzanti verso le novità, guardinghi verso ciò che non si riesce a capire.

Come?

L’essere umano è per natura diffidente verso quello che non riesce a comprendere. Ma certi esseri umani sembrano esserlo ancora di più. E spesso solo per pigrizia o comodità.

L’inconsueto spaventa perché lontano, sconosciuto. Sia essa una nuova idea, un abito mai visto prima, un’abitudine inconsueta, una lingua mai sentita o qualsiasi cosa che stoni con la routine sancita dal canto del gallo nell’aia della mente.

Dove?

Non fraintendetemi: anche in città, spesso e volentieri, si sente il gallo che canta. Anzi, l’ho sentito più spesso cantare in città che fuori (vedi incipit). E poi il gallo è un animale che mi piace: sono un campagnolo orgoglioso. Viva il countryside :).

Ricome?

La provincia mentale, però, la si riconosce bene perché la si vede annidata dove c’è chi si trincera per comodità o pigrizia (lo ridico) dietro quelle cose che fino a 10 minuti prima nemmeno degnava della minima considerazione, ma che adesso sono comode da sbandierare.

La provincia mentale prolifera dove ci si deve dare una forma, una reputazione per forza: una sola, per tutti. E chi non ci sta è, nel linguaggio tipico degli altri, uno strano.

La provincia mentale si annida dove manca ogni stimolo, ogni volontà di informarsi. Dove i quotidiani dormono invenduti sugli scaffali, dove i teatri e le sale cinematografiche rimangono vuote, i libri di scienze, letteratura e storia rimangono a dormire sugli scaffali delle biblioteche.

La provincia mentale, dovunque ci si trovi, cresce dove l’inerzia prende il sopravvento, dove ci si adegua per pigrizia. Basta solo agganciarsi a un discorso; chi se ne importa se non siamo informati sull’argomento.

Si annida dietro le scuse, come la mancanza di tempo, la sfiducia o il cinismo disilluso di quelli che mascherano la propria ingenuità. Dietro gli “scusa” e “hai ragione” che non diciamo per orgoglio puerile.

Si annida anche laddove la tanto conclamata lungimiranza non va più in là del proprio naso.

Piaciuto il monologo?

Ok, bene, ora vado: ho da spolverare il vestito nuovo. Mica voglio fare brutta figura (sarcasmo, vecchio mio)…

#voleodire

Langravio

(Francesco)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BREVE FIABA SATIRICA

C’era una volta un lontano paese dove la campagna elettorale non finiva mai.
Fin dalla mattina, le strampalate e infattibili proposte politiche si susseguivano: si faceva a gara a chi la sparava più grossa.
In tutto questo frastuono, però, nessuno aveva mai risolto i problemi endemici che affliggevano questo lontano paese.

C’era una volta un lontano paese dove tutti urlavano e si parlavano addosso (“#%£]§!”). I punti esclamativi, oramai allo stato brado, crescevano dappertutto. E nessuno riprendeva mai fiato.

La soluzione, a detta di tutti, era a portata di mano, vicinissima (“Basterebbe poco.”). Ne erano tutti sicuri.
Era talmente vicina che non arrivava mai. Ma sarebbe arrivata prima o poi, eh.

C’era una volta un paese lontano dove i libri venivano usati per zeppare i comodini (“eh, mica siamo tutti saccenti come te”), in cui c’erano più sirene che lettere H.

C’era un volta un paese lontano in cui tutti si interessavano tanto degli altri (“e gli altri che fanno, eh!?”).

I clichè si aggiravano per le strade e si moltiplicavano a vista d’occhio.

Tanto tempo fa, in un paese lontano, si curava la pigrizia con la disillusione (“Basta, ormai non mi fido più”).

Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, e anche tradizionalmente chiacchierone, si era persa apparentemente l’importanza del parlare (“Eh, ma chiacchierano tanto e non fanno nulla!”).

Tanto tempo fa, in un paese lontano, tutti se ne andavano cercando le cause, ma quasi nessuno i rimedi.

La colpa, in questo lontano paese, era una bella donna: talmente bella che rimaneva spesso zitella.

C’era un volta un paese lontano lontano dove si facevano dei giri immensi per poi tornare inesorabilmente al punto di partenza.

C’era una volta un lontano paese. No, asp, ah già…..

 

Langravio

Francesco Valdambrini

 

N.A. l’intento del post è puramente ironico. Riferimenti a fatti o persone sono puramente casuali e non voluti.

 

 

RANCOROPOLI

Manuale di sopravvivenza da usare in caso di mancanza di buongusto e in caso di mancanza di innocuo/inoffensivo sarcasmo.

Il cattivo gusto, si sa, è una questione di abitudini.

Ce ne accorgiamo quando c’è chi gioisce in maniera becera e ingiustificata della sofferenza altrui.

Il problema, soprattutto, è quando il buongusto latita e diventa talmente accessorio da essere più raro di El Dorado.  Alla fine, quando ci saremo stancati (anche se la soglia di tolleranza nostrana è alquanto alta, forse troppo), daremo ragione a chi dice che il buongusto dovrebbe essere insegnato a scuola. Ormai abbiamo capito che, se parliamo di competenze, quella della sobrietà dei toni e del garbo dovrebbe essere necessaria.

Un altro problema cresce quando pensiamo che il rancore possa giustificare tutto, anche l’inveire contro chi non vive un momento decisamente positivo della propria vita.

E, si, tutte le volte che succede è abbastanza triste e desolante.

Basta trovare un bersaglio, un capro espiatorio contro cui riversare la propria rabbia repressa e il proprio nervosismo: uno con più soldi di noi, con una bella fidanzata/o o uno con un’opionione differente. La frustrazione è un sentimento come tanti, ma dovremmo essere noi a farci i conti ed elaborarla, non gli altri (introspezione). Per questo, forse, dovrebbero esserci più distributori di camomilla in giro e meno macchinette del caffè :).

Una cosa poi è chiara: sono ancora pochi quelli che hanno scoperto i benefici della meditazione e degli esercizi di respirazione. Con ciò non voglio dire che non si debba esprimere un legittimo disappunto, ma forse farlo in maniera civile (e magari per quelle cose che riteniamo ingiustizie) sarebbe meglio.

Chiudo con una paragone un po’ sproporzionato, lo so, ma efficace: come Parsifal che cerca il Graal, chi ha la mia stessa opinione se ne va in giro in cerca di un po’ di garbo e gentilezza anticonformista. Ne troveremo mai tanta?

Nel frattempo, respiriamo….

Langravio

A CHE ORA SI PERDE IL TRENO?

Su una cosa gli italiani (soprattutto anche i toscani) sono imbattibili: lo scetticismo. La qualità e la quantità di questo delle volte è talmente sopraffina da diventare quasi apparentemente inappuntabile.

Ma questo scetticismo può essere anche un freno verso la capacità di governare o dominare un cambiamento. E governare un fenomeno non lo intendo in senso conservatore, ma proattivo.

Sul problema dell’intelligenza artificiale e i suoi impatti sulla società, lo scetticismo di alcuni ambienti è abbastanza palpabile. L’Italia, come veniva giustamente ricordato da Nicola Saldutti in un articolo su Corriere Innovazione del 27/04 (vedi fonti), è il sesto paese esportatore di robot nel mondo. Abbiamo la capacità di incrementare la nostra produzione in quantità e in qualità, ma l’articolo evidenzia che avremmo anche bisogno di un piano industriale di miglioramento, coordinamento e di ulteriore sviluppo. Globalmente: dalla scuola, alla fabbrica, al consumatore aggiungo io.

Qui è il vero dilemma: mentre perdiamo tempo in limbi fatti di eterne discussioni, con chi rifiuta a priori il miglioramento delle tecnologie attualmente disponibili e chi le vorrebbe senza freni, non è che rischiamo di perdere un altro treno?

(Come al solito, in Italia chiedere equilibrio nell’approccio ai problemi è come chiedere l’anima. E l’anima non si chiede a nessuno, sia mai.)

Dico “un altro” perché già ne perdemmo uno, molti anni fa: divenire, col tempo, uno dei paesi pionieri nello sviluppo di una rete internet. L’Italia fu il terzo paese europeo (dopo Regno Unito e Norvegia) ad adottare internet. Accadde nel 1986, a Pisa. Quel collegamento fu possibile grazie a delle tecnologie forniteci dagli Usa.

Poi, invece di pianificare lo sviluppo di un indotto fatto di imprese competitive a livello internazionale, si direbbe che è andato quasi tutto in cavalleria. Già al tempo, purtroppo, questo storico evento (merito dei nostri ottimi scienziati) non fu certo pubblicizzato a dovere dai media (evitiamo battute sarcastiche, va).

Come al solito, gli italiani sembrano la vittima preferita di loro stessi. Historia magistra vitae, si direbbe.

Diciamolo francamente: siccome quando si tratta di governare cambiamenti e fenomeni non diamo mai il meglio di noi stessi, dovremmo forse avere l’umiltà di ammettere (come sistema paese) che bisognerebbe imparare a farlo da chi indossa i calzini bianchi coi sandali. Per una volta senza picchi di orgoglio puerile.

Quindi riusciremo a perdere anche questo treno e a vedere gli altri che ci sfrecciano accanto in fuoriserie mentre noi ci accontentiamo di un monopattino barocco («perché l’importante è salutare e avere brio»)?

#voleodire

Langravio

(Francesco Valdambrini)

P.S. il post ha un’impostazione satirica, lungi dall’esser pesante o sprezzante. Sorridiamoci sopra.

Ecco le due fonti dell’articolo; per chi di voi volesse approfondire:

1: http://www.repubblica.it/tecnologia/2016/04/29/news/1986-2016_trent_anni_fa_il_primo_ping_che_collego_l_italia_a_internet-138688957/?refresh_ce

2: «L’Italia dei robot può farcela», di Nicola Saldutti, Corriere innovazione, in Corriere della sera, p. 14, del 27/04/2018. (Consultazione cartacea)

 

L’INDOLE INDOLENTE

Introduzione tecnico-teorica al “si, però mi sta fatica” (per ridere)

«Il dolce far niente degli italiani – leggenda insultante nell’ordine materiale – ha purtroppo qualche fondamento nell’ordine morale. Gli italiani sono pigri moralmente, c’è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori e a trasformare in commedie le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi della coscienza – un vero appalto spirituale – è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche dei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deus ex machina, del duce, del domatore [..] risponde sovente ad una loro necessità psicologica.»

(Carlo Rosselli)

Queste parole, se permettete, hanno un qualcosa di profetico.

Se si aggiunge, poi, che di queste sagge parole non si ricorda quasi più nessuno, in un paese come questo certe parole alla fine lo sono davvero.

È la stessa storia da tanto tempo ormai: più che votare un progetto politico nelle proposte, lo si fa sperando che questo qualcuno arrivi e risolva i problemi. E noi? E noi continuiamo a far quello che sempre facciamo, giusto o sbagliato che sia.

Per noi non sembra valere l’assunto per il quale si comincia veramente a cambiare in meglio qualcosa se si combatte l’abitudine e tutto quanto di sbagliato ci può essere in essa (senza scomodare il saggio e pragmatico Gandhi).

In un paese con un così alto livello di evasione fiscale, mi pare veramente naif pensare che una sola persona possa correggere le brutte e masochistiche abitudini di alcuni suoi cittadini.

Finite le elezioni, si torna in ibernazione morale fino alla prossima tornata. E chi tenta di fare l’opposto, deve essere per forza un moralista, un radical chic o un tipo petulante.

Si torna a quel cinismo figlio della falsa convinzione che un uomo solo, e non un sistema nazione, possa curare i suoi malanni cronici. E qual è perciò la frase più rappresentativa di questo? Il “mi hanno stancato, gli ho dato fiducia, ma ora basta” è un buon indiziato possibile.

Se la storia ha insegnato una cosa a chi ha voluto capire, è che le bacchette magiche non esistono.

Per noi l’evidenza della storia non sembra bastare, sempre sperando che la storia abbia la pazienza per farcelo capire ancora. Se perdesse la pazienza, sarebbe un guaio.

 

«Si, ma allora col tempo riusciremo a cambiare alcune nostre pessime abitudini?»

 

Chissà: conoscendo il precedente, però, all’orizzonte rivedo tanti Tafazzi e gatti che si mordono la coda. Dappertutto.

 

#voleodire

 

Francesco Valdambrini

(Langravio)

 

P.S. l’articolo ha un’impronta satirica. Prendiamoci poco sul serio. Per i riferimenti bibliografici completi della citazione in apertura, contattatemi pure per delucidazioni.

TANTO RUMORE PER….

“La gente non ascolta: aspetta il proprio turno per parlare.”
(Chuck Palahniuk)

Quando e se lo aspetta, poi.

Il nostro paese è oggi, come sempre d’altronde, rumoroso come non mai.
Il silenzio assennato, non vuoto, è diventato sempre più un bene raro a trovarsi.
È il Graal dei nostri tempi. Preziosissimo, ma introvabile.
Il brusio, infatti, regna incontrastato. E qui, in mezzo a tutto sto baccano, mi viene in mente un verso di Pasolini, dalla raccolta Le ceneri di Gramsci, che spero di non aver interpretato male:

«…un popolo/ il cui clamore non è che silenzio»

Siamo sicuri, quindi, che tutto questo urlarsi addosso, interrompersi, rumoreggiare sempre e comunque dia peso a quello che vogliamo dire?
La pacatezza può dare senso e forza a quello che diciamo, se lo diciamo a qualcuno che ci ascolta?
Siamo sicuri che urlarsi addosso non sia che un modo per dare sostanza al nulla, o a un flusso di coscienza che si regge solo sul livore e sulla voglia di rifarsela con qualcuno?
E siamo sicuri che, così facendo, si possa veramente cambiare qualcosa?
Io credo di no, e credo che, per quanto ad alcuni possano sembrare abusate (a me francamente no), valgano le parole di Tomasi di Lampedusa, ormai divenute memorabili e spesso usate per riferirsi a questo clamore entusiasta per il fantomatico “nuovo e rumoroso”:

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.»

E se il nuovo, o supposto tale, per una volta non venisse insieme al rumore, ma venisse nella forma e nei modi di una pacatezza, di una lucidità e di una saggezza che col rumore, gli urli rabbiosi, il livore e la frustrazione di anni di “ma lassa fa’, ma lassa perde” non hanno niente a che fare. Forse quello sarebbe l’unico cambiamento di senso duraturo, capace di dare corpo alle parole (ma si spera siano sempre poche e concise).
Intendiamoci, non è lo sbagliare il problema (chi non lo fa mai?!): è il non provare a redimersi mai dal baccano il vero problema.
Senza scomodare il detto “parecchio fumo, e poco arrosto”, penso d’essermi fatto capire.
Inutile dare le colpe senza proposte.
Troppe cose sono nate dal monosillabo NO, e poi, quando si è trattato di darsi un contenuto, si son fatte il vuoto intorno.
Non solo in politica, ma in generale verso il dibattito su tutto (dal colore delle tapparelle del bagno, allo sport, al domani), dovremmo sforzarci di combattere l’istintività dell’urlo, specie quando senza un valido motivo.

Forse ne guadagneremmo in autorevolezza…

Francesco Valdambrini
(Langravio)

N.D.A: l’intento del post è satirico. Famose na risata, va ;)…

L’ERBA DEL VICINO…

Da quanto ho letto, quello che è successo venerdì a Bardonecchia, francamente, è alquanto surreale e spiacevole. Non vorrei, però, che fosse figlio di un nervosismo che mai fa bene quando si tratta di avere un rapporto di buon vicinato.

Di questo episodio, in Francia, ne hanno parlato in pochi e sicuramente non quanto dovuto (se non vi fidate, guardate la stampa online), e questo sinceramente non fa molto onore alla loro capacità di autocritica.

Sono sempre stato severo quando si è trattato di giudicare il mio paese, l’Italia, ma personalmente parlando stavolta non trovo niente da eccepire francamente.

Questo mio pezzo non ha il consueto tono satirico, e mi rincresce, ma penso che il tema sia serio.

Dall’articolo 14 della Costituzione italiana, agli articoli 40 e 41 dei Trattati di Schengen, la ragione sembra stare da una parte sola. E la protervia da un’altra.

Visto, poi, che oggi va tanto di moda ragionare a parti invertite, per reciprocità, non oso immaginare quali sarebbero state le reazioni sdegnate degli altri se fosse successo il contrario.

D’altronde, c’è anche da considerare che l’umiltà non è una qualità alla portata di tutti.

L’Europa funziona se ci trattiamo pacificamente tutti da pari.

P.s. Vogliamoci bene….

Francesco Valdambrini

(Langravio)

 

 

 

INGENUITÀ ERETICA

Sciroppo contro la dietrologia disillusa

[Postilla doverosa: eccoci qua al primo post del mio blog. Come al varo di una nave: solo che, al posto dello champagne, nel mio caso c’è una boccia di caffè americano ben zuccherato (o d’acqua). Buona lettura, e grazie.]

“Dentro ogni persona cinica, c’è un idealista deluso”.

(George Carlin)

Si sa, uno dei marchi di fabbrica dell’essere italici è l’abbandonarsi alla dietrologia ogni qualvolta si devono giustificare decisioni e azioni altrui. Chi non mostra cinica diffidenza o scetticismo verso la genuinità dei fatti o pensieri altrui, si vede scendere addosso lo stigma degli stigmi per un paese come il nostro (dopo l’offesa alla mamma, è chiaro): l’accusa di ingenuità.

In Italia, nel paese dei furbi, essere ingenuo è, per la maggioranza, uno stigma peggiore della lebbra.

Per molte persone questa parola suona come una coltellata in pieno petto, un fendente che talvolta azzoppa anche l’amor proprio più granitico.

Detta nel mezzo di un’Agora, poi, ha la stessa potenza di un tuono improvviso a ciel sereno. Gli italiani, che in genere non sanno prendersi poco sul serio, sono scossi da una parola e un’accusa del genere.

Ma non è che, forse, la nostra cara e abusata dietrologia è la conseguenza di questa paura di venir tacciati di ingenuità, un tentativo di mettere un velo sulle cicatrici di un idealismo represso o caduto?

Non è che, qui o altrove, con la stessa rapidità con la quale si aderisce a una causa, successivamente la si schifa se non ci pare abbia dato i risultati più appropriati per il nostro modo di vedere?

E poi, quindi, arrivati a un certo punto, le decisioni degli altri ci sembrano lo specchio di intenti celati che una volta erano i nostri?

Probabilmente è questa la ragione che porta qualcuno a irridere l’idealismo: una volta era il nostro (uso il plurale maiestatis, o royal We, come dicono gli inglesi), ma adesso che ci ha tradito non lo è più. Dunque per questo tutto ci pare frutto di scaltro opportunismo, e niente più.

Forse l’ingenuità, a dosi moderate, sgonfia il fegato. Ma il cinismo disilluso mi pare che lo fermenti. Sempre meglio un po’ di zucchero nel caffè, no? 🙂

 

Francesco Valdambrini

(Langravio)

 

Nda: il post ha intenti satireggianti e umoristici. Non ci sono riferimenti a fatti o persone reali. Prendiamoci poco sul serio…